Flotilla, la rotta che ci costringe a guardare oltre l’indifferenza

EDITORIALE – La verità va detta senza giri di parole: chi è partito con la Flotilla sapeva che non avrebbe “salvato” nessuno con gli aiuti caricati a bordo. Non perché la sofferenza non sia reale o urgente — lo è, eccome — ma perché, davanti a un blocco navale presidiato e a un contesto iper-militarizzato, la possibilità per imbarcazioni civili di forzare un accesso umanitario era prossima allo zero. La Flotilla è (ed era) innanzitutto un atto politico: una testimonianza, una pressione, una mossa comunicativa.

Questo non toglie valore al gesto. La disobbedienza civile vive di azioni “impossibili” che mettono a nudo le contraddizioni del potere. L’obiettivo non era scaricare tonnellate di farina in porto; era costringere il mondo a guardare. Generare frizione. Ottenere dichiarazioni, prese di posizione, mobilitazioni. In altre parole: trasformare un tema lontano in agenda immediata.

Certo, l’obiezione è pronta: “Se sapevate che non sarebbe entrato un litro d’acqua, perché rischiare tensioni e incidenti?” La risposta è brutale nella sua semplicità: la vera “merce” trasportata dalla Flotilla è l’attenzione globale. In un conflitto dove la fame e l’assedio sono anche narrazione, rompere il silenzio diventa il primo aiuto possibile. “Simbolico”? Sì. Ma spesso sono i simboli a cambiare il passo della politica: il 2010 ce lo insegnò tragicamente, e ogni nuova flottiglia ripropone la stessa disputa sul diritto internazionale del mare e sulla liceità del blocco. Che si sia d’accordo o meno, oggi quel dibattito è di nuovo in prima pagina.

La Global Sumud Flotilla ha navigato su una doppia rotta: il mare verso Gaza e la politica verso l’Europa. La prima era quasi impossibile; la seconda, inevitabile. Lo stop in mare non è la fine del viaggio: è il segnale d’inizio della discussione su export, alleanze e coerenza tra principi proclamati e scelte effettive. In altre parole, la scena è politica: si gioca tra chi legittima il blocco come necessità di sicurezza e chi lo denuncia come punizione collettiva.

Sul piano pratico, nessuno era ingenuo: la missione non nasceva con i numeri, i permessi e le garanzie per sostituirsi a un’operazione umanitaria strutturata. Era un forcing politico, un varco simbolico contro un muro reale. Prevedibilmente, l’intercettazione e lo stop sono diventati il cuore narrativo dell’azione: il punto in cui si misurano governi e opinioni pubbliche tra chi legittima il blocco come necessità di sicurezza e chi lo denuncia come punizione collettiva.

La domanda giusta, allora, non è se la Flotilla abbia portato “abbastanza” aiuti materiali. È se abbia portato abbastanza politica. Nel breve periodo, sì: ha acceso riflettori, ha alzato il costo reputazionale dello status quo, ha costretto a prendere posizione. Nel medio periodo, la sua efficacia dipenderà da ciò che seguirà: corridoi verificabili, ispezioni credibili, passi multilaterali. Oppure l’ennesima fiammata archiviata nel flusso dei social.

Qui si innesta il tema più spinoso: la coerenza. Se condanno certi atti quando li compie un nemico e li relativizzo quando li compie un alleato, costruisco il cinismo che poi imputo ai cittadini. Il doppio standard non uccide solo la credibilità della politica estera: svuota la democrazia di significato, perché insegna che le parole valgono meno dei rapporti di forza. E quando i principi risultano negoziabili, la cittadinanza si ritira. Lì la democrazia perde.

Le leve non militari — isolamento politico, pressione economica, sospensione di collaborazioni — non sono bacchette magiche, ma talvolta hanno piegato assetti che sembravano intoccabili. Senza mitizzare il passato né appiattire i contesti, la domanda resta: siamo disposti a usare con coerenza gli strumenti che diciamo di avere?

Come si misura, allora, l’efficacia simbolica? Non in tonnellate scaricate, ma in centimetri di spazio umanitario che si aprono nella trattativa, in interrogazioni parlamentari che prima non c’erano, in opinioni pubbliche che si spostano anche di un grado. La Flotilla è una sveglia: non sfama nessuno domattina, ma può cambiare chi prepara il cibo dopodomani. Per questo l’inefficacia operativa è (anche) il messaggio: mostra il blocco, lo rende visibile, obbliga a prendere posizione.

Resta una verità scomoda: in guerra la logistica vince sulla morale, e i camion ai valichi contano più delle barche in mare. Ma senza la morale — senza qualcuno che obblighi a guardare — anche quei camion restano fermi. La Flotilla non ha “salvato” nessuno oggi. Potrebbe contribuire a salvare qualcuno domani, se la pressione che ha generato diventerà leva diplomatica e regola. È il patto del gesto simbolico: dichiarare l’impossibile per spostare il possibile.

Il disincanto è diventato la nostra comfort zone: “Tanto non cambia nulla”. La Flotilla è scomoda perché sposta la domanda: non “funziona subito?”, ma “ci obbliga a scegliere da che parte stare?”. È un promemoria ruvido: l’inefficacia operativa non assolve l’indifferenza politica. Il suo successo o fallimento non si misureranno in pallet scaricati, ma in centimetri di spazio umanitario guadagnati e in coerenza conquistata tra parole e decisioni. Il resto è contabilità, non politica.